Legge di bilancio 2026: una panoramica

Legge di bilancio 2026

Una premessa è, ovviamente, d’obbligo: ciò che descriviamo di seguito è la versione della Legge di bilancio 2026 così come uscita dalle discussioni in seno al governo Meloni. Una versione cioè che ancora deve affrontare il dibattito parlamentare e che, pertanto, potrebbe essere rivista, su alcuni punti critici, anche in modo radicale. Ciononostante, ci permettiamo di seguito di tentarne una lettura critica, mettendo in rilievo quelli che riteniamo esserne gli aspetti generali e di tendenza, che difficilmente saranno oggetto di radicali sftravolgimenti.

Uno sguardo d’insieme sulla Legge di bilancio 2026

La “Finanziaria“, come si diceva un tempo, appena sdoganata da Giorgetti e Meloni ci appare, ad una prima lettura complessiva, un mix di misure tampone e interventi calibrati per guadagnare spazio politico nel breve termine, senza però risolvere i problemi strutturali dell’economia del nostro Paese.

Sul piano fiscale si assiste a un lieve maquillage redistributivo. È prevista la riduzione di una aliquota IRPEF – dal 35% al 33% – e la rimodulazione della detrazione su redditi superiori a 200.000 € (Art.2 del DDL). Nella stessa filosofia si può inserire anche l’intervento mirato per la spesa sociale, con l’incremento dei fondi destinati alla “Carta Dedicata a te”, adibita all’acquisto di generi alimentari per i meno abbienti (Art.3).

A quanto ci è dato di capire, la Legge di Bilancio 2026 pare scommettere molto sulla tenuta della domanda interna, con misure per aumentare il potere d’acquisto – premi di produttività e tassazione agevolata di alcune indennità (Art.4) – e incentivi agli investimenti edilizi ed energetici (Art.9). Ma si tratta, in gran parte, di misure temporanee o di estensioni di agevolazioni già esistenti, cioè strumenti che spostano in avanti i problemi senza sanarne la radice. In un paese con basso tasso di crescita potenziale, questo appare essere solo un palliativo.

Sul fronte macro, infatti, le previsioni di crescita sono modeste: Istat e Banca d’Italia indicano prospettive per il 2025–2026 attorno allo 0,5–0,8%, con rischi al ribasso legati a fattori esterni, come i dazi o un euro troppo forte, e a una domanda estera più debole. In questo quadro, il margine per politiche espansive credibili è limitato: la legge aumenta il ricorso al mercato per il periodo 2026–2028, concedendosi margini di indebitamento aggiuntivi che rallentano la riduzione del deficit strutturale. È una scelta politica: si lascia aperta la porta a spesa corrente extra invece di investimenti pubblici stabili e orientati alla produttività.

Quanto al mercato del lavoro, la legge introduce agevolazioni settoriali e tassazioni sostitutive su alcune componenti retributive, nella speranza di tradurre incrementi salariali in consumi (Art.4). Ma l’Istat segnala segnali di fragilità occupazionale, con un tasso di disoccupazione stabile attorno al 6% e un calo dell’occupazione in alcune fasce. Senza politiche industriali e investimenti pubblici nel Mezzogiorno e nei settori a medio valore aggiunto, questi interventi rischiano di essere inefficaci o di frammentare ulteriormente i diritti contrattuali.

In sintesi: il bilancio è politicamente astuto – dà qualcosa a più categorie senza grandi scossoni – ma è teoricamente debole se l’obiettivo fosse realmente quello di ricostruire capacità produttiva e coesione sociale. Per chi guarda con uno spirito giustamente riformista ma non retorico, la domanda da porsi è semplice: perché non mettere al centro investimenti pluriennali nella transizione produttiva, nella cura del territorio e nella riduzione delle disuguaglianze strutturali, invece che puntare su sussidi e sgravi temporanei che si esauriranno alla prima recessione? La risposta del Governo, per ora, è evasiva: questa legge cura i sintomi, non la malattia.