Con il Decreto Rilancio è stata introdotta una nuova tipologia di Piani Individuali di Risparmio. Abbiamo brevemente anticipato l’argomento nell’articolo dedicato alle novità del mese di maggio, I cosiddetti PIR hanno già alle spalle una storia di qualche anno. Ne abbiamo parlato diffusamente in vari articoli; vediamo di ricostruirne il cammino.
Piani Individuali di Risparmio, la storia
I primi PIR nascono con la Legge di Bilancio 2017. L’idea è quella di creare uno strumento di investimento dedicato al retail per dare credito alle imprese stimolando il risparmiatore con incentivi fiscali. Tutti i fondi comuni, le polizze vita e le Sicav “PIR-compliant” devono:
- investire almeno il 70% del totale della raccolta in obbligazioni o azioni di imprese residenti in Italia o europee ma con attività stabile in Italia;
- allocare almeno il 30% di tale 70% in obbligazioni o azioni di imprese non presenti nel FTSE MIB;
- investire non più del 10% del totale della raccolta in unico emittente.
Conservare l’investimento in un Piano Individuale di Risparmio per almeno cinque anni consente una totale defiscalizzazione delle eventuali plusvalenze maturate. Il risparmiatore, necessariamente persona fisica residente in Italia, ne può sottoscrivere solo uno e può versarvi al massimo €30.000 all’anno, con un limite complessivo di €150.000.
La riforma (fallita) dei PIR
La Legge di Bilancio 2018 ha previsto una modifica delle caratteristiche dei Piani di Risparmio Individuali. Questo perché i PIR appaiono sino a quel momento poco efficaci nel drenare liquidità verso le Piccole e Medie Imprese. In particolare, dagli investimenti sarebbero rimaste fuori tutte quelle piccole realtà non quotate sui mercati. Da queste considerazioni nasce l’idea di apportare i seguenti correttivi:
- almeno il 3,5% dell’investimento deve riguardare imprese quotate all’AIM Italia, con meno di 250 dipendenti e meno di 50 milioni di Euro di ricavi;
- almeno il 3,5% dell’investimento deve riguardare fondi italiani di venture capital, al fine di consentire il finanziamento indiretto delle piccole società non quotate.
Dal 1 gennaio 2019 tutti i PIR avrebbero dovuto conformarsi alle nuove disposizioni di legge. Ma ciò non è stato possibile: i vecchi Piani Individuali di Risparmio hanno dovuto subire il blocco del collocamento, in quanto non più conformi alla normativa; per collocare i nuovi si è dovuto attendere il decreto attuativo il quale, atteso entro la fine di febbraio, è stato finalmente pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 7 maggio 2019. Questo temporeggiare da parte del legislatore ha nella pratica fatto perdere molti mesi di raccolta e, di conseguenza, di finanziamento alle PMI. Tra i gestori dei fondi è rimasta, comunque, una forte perplessità sui nuovi PIR riformati, per via della caratteristica illiquidità degli investimenti in fondi di venture capital, previsti per almeno il 3,5% del totale, ritenuti poco adatti alla clientela retail. Anche a seguito di questi importanti rilievi critici, il legislatore aveva stabilito un periodo test di sei mesi, dopo i quali intervenire con ulteriori apporti normativi.
PIR 3.0
Dopo che la versione 2.0 dei Piani Individuali di Risparmio ha completamente fallito la sua mission, il Decreto fiscale collegato alla Legge di bilancio 2020 rivede nuovamente le regole dei PIR. Più nel dettaglio, si è deciso di eliminare l’obbligo di investire almeno il 3,5% in fondi italiani di venture capital, di fatto rendendo più semplice la realizzazione e la liquidabilità di tali prodotti.
I nuovi Piani Individuali di Risparmio
I nuovi PIR alternativi introdotti – come anticipato – dal Decreto Rilancio , non vanno a sostituire i PIR ordinari, bensì ad affiancarsi loro. Il risparmiatore potrà cioè possedere sia un PIR tradizionale sia un PIR alternativo. L’idea è quella di affiancare ad un prodotto poco liquido un prodotto analogo, ma maggiormente flessibile in uscita e dal profilo di rischio più contenuto. Lo schema dei Nuovi piani di investimento a lungo termine – è questo la denominazione ufficiale – è sostanzialmente identica a quella dei PIR tradizionali, fatta eccezione per:
- la diversa composizione dell’investimento del 70% del valore complessivo, più orientata al segmento delle PMI non presenti nei tradizionali mercati regolamentati;
- la possibilità di investire sino al 20% del totale della raccolta in unico emittente;
- la possibilità di versarvi sino a €150.000 all’anno, con un limite complessivo alzato sino a €1.500.000.